Parlando dei bei tempi: La recensione di "Good Times"

A meno che non si vogliano attribuire colpe specifiche alla copertina del disco, che è insolitamente cupa, non è difficile individuare le cause dell'insuccesso di "Good Times". L'album arriva nei negozi nel marzo del 1974, in concomitanza con un lungo tour che impegna Elvis per tre settimane, ma nessuna delle nuove canzoni viene inserita nelle scalette dei concerti. Di conseguenza, il singolo di lancio "I've Got A Think About You Baby / Take Good Care Of Her" perde l'indispensabile spinta promozionale, mentre un brano forte dal punto di vista melodico come "My Boy", già highlight durante la più recente stagione a Las Vegas (dunque prima della sua effettiva incisione) resta confinato al vinile. Le probabilità di successo del nuovo lavoro in studio tramontano definitivamente a causa delle discutibili mosse della RCA, che pubblica "Good Times" a metà strada tra l'ambiziosa antologia "A Legendary Performer - Elvis, Volume 1" e "Elvis Recorded Live On Stage In Memphis", terzo disco dal vivo in due anni. Tutto questo per lasciare poi scoperti i restanti sei mesi del 1974, a patto che non si voglia considerare "Having Fun With Elvis On Stage" un 33 giri riconducibile allo stesso Elvis. Alla fine della fiera, il novantesimo posto in classifica penalizza in modo deprimente un album bello e ricco di spunti di rilievo.

Se "Elvis Now" e "Elvis [The Fool Album]" mancano di un filo conduttore, se in "Raised On Rock / For Ol' Times Sake" l'ispirazione è discontinua, "Good Times" si rivela già dal primo ascolto un'opera maggiormente a fuoco, nella quale anche gli episodi musicali meno appariscenti sono parti essenziali di un insieme. Realizzato attingendo a piene mani dalle riuscite sessions del dicembre 1973 (fatta eccezione per le due canzoni del già citato singolo) l'album riflette l'immagine di un artista che pare voler affrontare con rinnovato entusiasmo la sua professione. A conti fatti, in "Good Times" troviamo il consueto "something for everybody", una costante nella produzione presleiana. Giova però sottolineare, per quanto non ce ne sarebbe bisogno, che tale sfoggio di versatilità non era frutto di calcoli e strategie di vendita, quanto piuttosto il risultato della genuina propensione dell'artista a cantare quanto stimolava la sua sensibilità, indipendentemente dal genere affrontato.

In questo senso, si potrebbe parlare all'infinito della necessità che Elvis avesse di attingere da fonti compositive alternative, magari prestigiose, e questo è certamente un aspetto della sua parabola da non sottovalutare e approfondire. Ma è in ogni caso evidente che interpretando brani come "Take Good Care Of Her" e "Good Time Charlie's Got The Blues", che gli permettevano l'introspezione personale o "Talk About The Good Times" e "I Got A Feelin' In My Body", che gli consentivano l'immersione nel ritmo, Elvis ritenesse di avere a disposizione quanto gli occorreva per dare libero sfogo alle emozioni, traducendole poi nel linguaggio universale della musica. Le mancate collaborazioni con i grandi nomi del rock, molti dei quali non aspettavano altro che scrivere e suonare per lui, la totale impermeabilità al mondo esterno hanno senz'altro precluso interessanti sviluppi per la sua carriera, ma non inficiano il valore di un disco di qualità come "Good Times".

Si parte con "Take Good Care Of Her", la canzone più crudamente autobiografica fuoriuscita dalle sfortunate sedute di registrazione del luglio 1973, al punto che non è difficile individuare il filo che la lega a "Separate Ways" e "Always On My Mind", incise un anno e mezzo prima. Le ferite sentimentali possono determinare repentini sbalzi d'umore e contraddittori punti di vista, ma a un passo dal divorzio Elvis ci appare semplicemente rassegnato. I reiterati "abbi cura di lei", indirizzati all'uomo che aveva preso il suo posto, vengono enfatizzati dal coro e snocciolati uno dopo l'altro su un anestetizzante tappeto di archi. Considerazioni del calibro di "devo accettarlo... lei ti ama più di me" e "non mandatemi inviti matrimoniali" sono deprimenti, per quanto, almeno in apparenza, esenti da rancore.

La stupenda "Loving Arms", esaltata da una delle migliori prove vocali di Elvis negli anni settanta, è l'ideale prosieguo della precedente. Le parole sembrano arrivare immediatamente dopo i titoli di coda di una storia d'amore: non è stato possibile cambiare il finale del film e allora possiamo soltanto abbandonare la sala con una serie di tardivi e inefficaci "se" nella testa.

Gli improvvisi e spiazzanti cambi di marcia di Elvis, rintracciabili tanto sul palco quanto in studio di registrazione, sono esemplificati alla perfezione dalla successiva "I Got A Feelin' In My Body", un solido R&B a tinte funky ricco di citazioni bibliche che scuotono gli animi grazie alla potenza espressiva del cantante, adeguatamente supportato dai musicisti intorno a lui.

"If That Isn't Love" permette ad Elvis di approfondire i temi religiosi appena lambiti, con il chiaro intento di cercare conforto nella fede. E come se stesse riconducendo al Signore il grande talento ricevuto in dono, la sua interpretazione è carica di rispetto e passione.

Non tradisce l'origine latina la dolce, colma di candore "She Wears My Ring", che introduce sull'album una visione dell'amore ingenua e per certi versi acerba, che stride con quella sofferta e disincantata che aveva caratterizzato le precedenti tracce. Naturalmente, non possiamo biasimare Elvis per essersi riscoperto, almeno una volta, giovane sognatore nel cuore.

Scritta da Tony Joe White e proveniente dalle sessions del già citato "Raised On Rock", la maliziosa "I've Got A Thing About You Baby" offre un piacevole break alla tensione emotiva che era andata accumulandosi, grazie al passo funky e al testo non privo di allusioni. Il brano avrebbe meritato maggiore fortuna in classifica.

"My Boy" rende noto all'ascoltatore quanto alcune struggenti melodie francesi si adattassero al particolare momento vissuto dall'interprete. Questa versione di "Parce-que Je T'aime, Mon Enfant" sarà eccessivamente straziante e la sequenza "per tua madre e me l'amore è definitivamente morto" senza appello, ma non si può negare alla canzone una notevole credibilità di fondo.

A seguire, si viene rapiti dalla malinconica atmosfera di "Spanish Eyes", che bilancia la lontananza con un filo di ottimismo. Elvis affronta questa nuova avventura dal sapore latino con una semplicità disarmante, che è il metro con il quale possiamo misurare la sua arte, raramente sopra le righe, mai fine a se stessa.

Quando riusciamo a saltare sul treno della "Talk About The Good Times" di Jerry Reed, vi troviamo invece un numero imprecisato di gente che suona, canta e balla, mentre Elvis snocciola una tirata sull'incomunicabilità e l'incertezza dei tempi moderni senza lesinare rimandi biblici rafforzati dal coro gospel. Spettacolari gli incroci tra chitarre e piano, in poco più di due minuti che si vorrebbe fossero l'eternità.

Ma il Re del rock chiude il disco così come lo aveva aperto, vale a dire su una nota di profonda tristezza. E se taglia dal testo di "Good Time Charlie's Got The Blues" la frase chiave "prendo le pillole per alleviare il dolore", riesce ugualmente a trasmettere il disagio di un uomo che non vuole o non ce la fa ad andare di pari passo con il resto del mondo, arrivando alla fatale conclusione che "qualcuno vince, qualcuno perde".

Termina così "Good Times", il disco ideale per l'inverno dell'anima. Mezz'ora di musica che scalda il cuore, mentre oltre la porta gli stessi luoghi a noi familiari sembrano essere diventati improvvisamente freddi e inospitali, trasfigurati dal vento e dalla pioggia che vorrebbero entrare.

GOOD TIMES
(Marzo 1974)

Lato 1: Take Good Care Of Her / Loving Arms / I Got A Feelin' In My Body / If That Isn't Love / She Wears My Ring

Lato 2: I've Got A Thing About You Baby / My Boy / Spanish Eyes / Talk About The Good Times / Good Time Charlie's Got The Blues

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