Elvis e la terra promessa

Trovai "Promised Land" sull'album al quale dava il titolo, una vita fa. Ne rimasi letteralmente incantato e pensai "Ah, ecco perché Elvis Presley è il Re!". Lo penso ancora, innumerevoli ascolti dopo.

Incisa nel dicembre del 1973, la canzone è caratterizzata dalla tonante voce di Elvis, così potente da mandare a farsi benedire uno stuolo di coristi in trepida attesa, dalla ritmica serrata e dalle adrenaliniche scariche di chitarra elettrica. Tutto in perfetto equilibrio. Tre minuti durante i quali Elvis, una volta tanto, non ci sembra il più grande solista del pianeta accompagnato da un buon numero di session men, ma lo straordinario cantante di una band. Sottigliezze, probabilmente, non sono neanche sicuro di essermi spiegato bene, ma la differenza l'ho sempre percepita nitidamente.

Proprio quando Elvis iniziò a servirsi della musica per piangere sulle sue sconfitte sentimentali, questa spettacolare rivisitazione del classico di Chuck Berry lo ricollocò in un ambito marcatamente rock. Nulla di premeditato, intendiamoci, l'effetto non fu richiesto, né desiderato. Elvis non si servì di "Promised Land" per invertire la rotta, aveva già dato nel 1968, spinto dalla smania di azzerare il decennio passato a Hollywood. E allora, invece di trasformarsi nel mezzo per raggiungere un fine, il brano si rivelò fine a se stesso.

Con "T-R-O-U-B-L-E", era un giorno come un altro del 1975, Elvis evocò l'ardore incendiario dei vecchi tempi. Poi tornò sull'amore perduto.

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