Indianapolis

Market Square Arena, Indianapolis, 26 giugno 1977. Davanti a migliaia di fans adoranti, anche se inconsapevolmente egoisti, Elvis Presley tenne quello che si sarebbe rivelato il suo ultimo concerto. Le sue condizioni psicofisiche erano critiche, la sua salute ormai compromessa, nondimeno, da consumato performer quale era e dotato di una voce che ancora riusciva a toccare le corde dell'anima, portò a termine un'esibizione per certi versi esaltante. Sulle struggenti note di Can't Help Falling in Love, fra mille luci, suoni e colori, si concluse così una carriera straordinaria e irripetibile, che lo aveva elevato a vette altissime e mai raggiunte da nessun altro nel firmamento musicale, senza per questo renderlo un uomo felice. Elvis divenne Re molto giovane, estese il suo regno, conobbe l'onta dell'esilio e l'ebbrezza del trionfale ritorno. Fu a quel punto, quando sembrava che nulla potesse fermarlo, che qualcosa si ruppe. Facendosi avvelenare il corpo e il discernimento da medicine pericolose e da una corte imbevuta di opportunismo, rinunciò sistematicamente all'aspetto creativo della sua professione, continuando a cantare per se stesso e per chi lo amava fino alla fine dei suoi giorni, preferendo isolarsi nell'ambito dei suoi domini piuttosto che lanciarsi in nuove avventure ammantate di mistero. A Honolulu, nel 1973, divenne infine una leggenda vivente. Fu il suo ultimo, vero trionfo, poi tutto si consumò in fretta, ad una velocità che lascia attoniti ancora oggi. Elvis non riuscì mai a capire che gli stimoli non sono dati necessariamente da un tour mondiale, o da uno spettacolo su Marte, bensì dalla consapevolezza dei propri mezzi e dalla voglia di rimettersi in gioco, di esplorare nuove strade, decidendo sempre e comunque con la propria testa. Anche a costo di prescindere da una corona. Sulla vetta del mondo continuò invece a fissare le stelle, consapevole che non sarebbe mai riuscito a raggiungerle con i piedi ancorati al suolo. Fu allora che volò via.

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