Alcune considerazioni sul nuovo box "Elvis Live 1969"


Bene, adesso mettiamo mano al portafoglio, portiamoci a casa questo costoso set (l'ho ordinato ieri) e prepariamoci a viaggiare nel tempo per l'ennesima volta. Ci fermeremo a Las Vegas, nell'estate del 1969, dove Elvis Presley tornò a fare quello che in tutta la sua carriera gli riuscì meglio, vale a dire esibirsi dal vivo. Se il Re non prese sempre per il verso giusto il lavoro in studio di registrazione, se digerì a fatica la gran parte dei film che girò nel corso degli anni '60, manifestò invece un amore sconfinato per l'attività concertistica, se è vero che continuò ad andare in tour fino alla fine dei suoi giorni, quando sarebbe stato opportuno non farlo.

A Las Vegas Elvis fece le cose in grande. Approntò una scaletta semplicemente perfetta, in grado di abbinare i grandi classici del passato ai recentissimi successi incisi a Memphis, mise su una band di assoluto valore, integrandola con uno stuolo di eccellenti coristi e con un'intera orchestra e offrì al pubblico che riempì la showroom dell'International Hotel per un mese degli spettacoli di altissima qualità.

Più in generale, continuando sulla strada spianata dall'imprescindibile Special televisivo del 1968 e dalle già citate session all'American Sound Studio riscrisse la propria storia dopo l'alienante e poco gratificante esperienza holliwoodiana. Proprio allora, mentre Elvis viveva una fase di splendore artistico paragonabile solo a quella del biennio 1956 /57 e a quella del 1960, anno del suo ritorno dalla Germania, si determinò un progressivo e paradossale distacco dalla cultura rock. Una frattura stupida, se posso dirlo, figlia dei tempi e della cattiva interpretazione dei fatti. Si, perché Elvis scelse Las Vegas e disertò Woodstock. Perché a differenza di quanto fecero alcuni eroi dei gloriosi fifties non si fece vedere nemmeno al Toronto Rock and Roll Revival, il 13 settembre di quello stesso 1969. Oppure perché non aveva i capelli che sfioravano il sedere e la barba incolta. Magari perché non si presentava sul palco imbracciando una chitarra acustica e indossando un paio di jeans sdruciti. E ancora, forse perché non cantava circondato dai vecchi amici, dimenticando che lo aveva fatto, in netto anticipo sui tempi, proprio in occasione del '68 Comeback. Perché, più di ogni altra cosa, la sua aspirazione era sempre stata, e restava, quella di cantare quanto gli piaceva prescindendo dai generi musicali, quella di rivolgersi ad un pubblico estremamente eterogeneo. E, se vogliamo,  anche a Las Vegas anticipò tutti, se è vero che oggi i grandi del rock vi si esibiscono regolarmente.

Invece no, Elvis ritrovò sé stesso, conquistò nuove schiere di appassionati ma per una considerevole parte della critica, intendo quella cretina, irrazionale, superficiale e poco informata, quella che spara sentenze sulla base di argomentazioni ridicole, quella cresciuta a pane e nulla cosmico si trasformò in un monarca perso nei vizi. Come se le altre rockstar dell'epoca fossero modelli di virtù. Come se fosse l'unico al quale si ingrossava a dismisura il conto in banca per mezzo di una professione che a certi livelli garantisce guadagni astronomici. Come se, infine, cantare l'amore in tutte le sue forme fosse disdicevole, sconveniente paragonato ai messaggi pseudo-impegnati che puzzavano di ipocrisia lontano un miglio.

Ecco perché, e mi riferisco a chi ha ancora dei dubbi, bisogna rivalutare Las Vegas. Il corposo box appena uscito aggiungerà un ulteriore tassello a questa saggia operazione di recupero, quindi ascoltiamolo e facciamolo ascoltare, consideriamolo l'ennesimo fiore all'occhiello di una grande passione. Al suo interno c'è, al massimo della forma, il più grande performer di tutti i tempi. Il resto sono chiacchiere e pregiudizio.

Commenti

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Letture: "Elvis and me" di Priscilla Beaulieu Presley

Domenica mattina con Elvis e Clambake

I 5 post del blog più visti nel 2020